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martedì 18 ottobre 2022

Liverpool, Betlemme e la terra Santa

Cominciai ad approfondire i Beatles verso la fine degli anni ’80 grazie al mio compagno di classe delle superiori Roberto, detto Jim per l’incredibile somiglianza con Jim Morrison. Si era talmente immedesimato nel personaggio tanto da condurre, a sua volta, una vita dissoluta e al limite. Tenete presente che all’epoca avevamo 14 anni, prima superiore. Prima di allora ero fermamente convinto che Liverpool e Betlemme, di cui scriverò più tardi, fossero luoghi inventati. Nel corso degli anni, per motivi diversi, ebbi l’opportunità di visitarli entrambi. Il nostro Jim era uno studente borderline, come ce n’erano tanti in quella scuola, ma con gusti musicali molto raffinati e particolari. Sballone dalla testa ai piedi, usava i quaderni di scuola per scrivere i testi dei Doors, dei Beatles e di John Lennon. Era fermamente convinto che la fine dei Beatles fosse imputabile all’entrata in scena di Yōko Ono, come mezzo mondo peraltro sosteneva. Grazie a Ryanair ho potuto visitare Liverpool per ben undici volte. Prima si volava direttamente sul “John Lennon Airport”; successivamente i voli furono dirottati su Manchester da dove, con un comodissimo treno, si raggiungeva la stazione centrale di Liverpool. Inizialmente prenotavo hotel molto lontani dal centro. L’obiettivo primario, dopo aver assolto il giro al Cavern con pinta d’ordinanza, era quello dello shopping compulsivo. Trascorrevo intere giornate all’interno dei negozi di articoli sportivi, con la missione di trovare pezzi unici che avrei poi regalato a fratelli e nipoti. Successivamente grazie a tutta l’esperienza che avevo acquisito nei viaggi precedenti, e anche un po’ imborghesito, cominciai a prenotare hotel sempre più centrali e sempre più prestigiosi. Oltre al Cavern, cominciai a frequentare anche Anfield Road e Goodison Park. Ho avuto l’ardire di portare a Liverpool, per ben tre volte, Nadia, mia moglie. Credo che se le avessi proposto il quarto viaggio mi avrebbe lasciato all’istante. Ma torniamo per un attimo a Betlemme. Correva l’anno 1992. A scuola era stato un disastro annunciato. Dopo il triennio i miei genitori mi chiesero di proseguire con il biennio che mi avrebbe portato al diploma. Dopo alcune consultazioni patteggiai una sorta di anno sabbatico, che passai per la maggior parte del tempo in giro per Brescia, dividendomi tra sale gioco, dopolavoro ferroviario, dove con poche lire potevi gustare degli ottimi panini e il castello, all’epoca frequentato da una moltitudine di tossici. In buona sostanza successe che il mio destino era già segnato ancora prima della fine della scuola. Una sera di maggio venne da noi Don Gianbattista, prete prima maniera ma molto cordiale e alla mano. Saltò fuori che nel pellegrinaggio diocesano di luglio era rimasto un posto vacante. I miei genitori pensarono che la terra santa mi avrebbe fatto bene e mi imbarcai alla volta di Tel Aviv. Dopo una settimana spesa tra i luoghi santi, con annessa dissenteria devastante, causata da un eccesso di fede (baciai letteralmente la stella della natività, cosa che gli altri fedeli più navigati si guardarono bene dal fare) tornai a casa. Fede o no, successe che conclusi i due ultimi anni di superiori e mi diplomai, con immensa soddisfazione mia e di mamma e papà




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